Noi negli occhi degli altri

Da adolescente ho passato una notevole quantità di tempo a preoccuparmi di quello che potessero pensare gli altri di me. Dei miei gusti abbastanza controtendenza – vedi quando in seconda elementare tutti impazzivano per  wwwmipiacitu dei gazzosa e io in fissa totale con Adriano Celentano – o dei miei passatempi un po’ da nerd.
Il giudizio degli altri mi tediava al punto da aver trascorso buona parte del liceo a nascondermi dietro l’aria da punkettona ribelle, con le catene e le spille da balia sui jeans, i bracciali con le borchie e la musica assordante nelle orecchie (però bella musica devo dire e di questo devo ringraziare principalmente mio padre). Un po’ come tutti gli adolescenti alle prese con complessi di inferiorità, insicurezze croniche e una discreta dose di rodimento di culo spesso e volentieri immotivato. Non so, forse pensavo che avere un aspetto intimidatorio mi tenesse al sicuro e mi tutelasse dallo sguardo altrui. 

Crescendo, oltre ad aver messo da parte cinte e polsini borchiati, mi sono resa conto di come gravasse su di me il peso delle aspettative che le persone avevano nei miei confronti. Sono arrivata a domandarmi se studiassi perché mi piaceva davvero o perché la mia famiglia si aspettava quello da me, né più né meno. Ho notato che mi sforzavo di sorridere ed essere carina quando magari non ne avevo voglia, con persone per cui non nutrivo alcuna stima e che secondo me non meritavano la mia benevolenza. Eppure qualcuno o qualcosa mi avevano abituata a credere fosse la cosa giusta: non è forse così che tutti si comportano? Sii carina, sii sorridente, sii gentile. Sempre, a prescindere da tutto il resto.

Mi sono iscritta all’università e puff! Sono stata letteralmente inebriata dal senso di indipendenza totale, mai provato prima. Ho imparato a scegliere, dalle piccole cose alle più importanti: potevo scegliere se frequentare un corso o meno, se sostenere un esame anziché un altro, se fare effettivamente l’esame e il momento in cui farlo. E ho scoperto che quando mi assumo in tutto e per tutto la responsabilità delle mie azioni, ho la massima resa. Sono diventata poco a poco più sicura di me e della forma che volevo assumesse la mia identità, ancora materia grezza. Ho conosciuto persone, ora per caso, ora dopo un’accurata selezione, e con inedito stupore mi sono riconosciuta in qualcuno al di fuori di me. Ho smesso di sentirmi la ragazzina strana e un po’ outsider. E, inconsapevolmente o meno, è stato quello il momento in cui ho iniziato ad essere come volevo essere, senza aver più il bisogno di compiacere chissà chi.

Oggi so benissimo di non incarnare proprio l’idea di amica, fidanzata, figlia, nipote ideale. Difficilmente mi esprimo su quello che provo, mi lascio andare ad effusioni fisiche e verbali, ancor più raramente invado lo spazio privato altrui perché mi piace lasciare le persone libere. Libere di andarsene, libere di stare in silenzio, libere di venire da me ogni volta che ne sentono il bisogno o il desiderio. Mi comporto così perché a mia volta sento la necessità di sapermi libera, senza vincoli dettati da inutili convenzioni, e mi serve sapere di avere sempre un’uscita di emergenza lì, pronta, ché non si può mai sapere.

Non so dire né fare niente per circostanza, nemmeno telefonare, nemmeno dire “dai, un giorno di questi ci vediamo per un caffè”. Cerco di essere comprensiva ma a volte basta poco per deludermi, perché sono estremamente esigente, in primis verso me stessa ma non risparmio nemmeno chi scelgo di avere intorno. Sono polemica e se qualcosa non mi sta bene difficilmente riesco a stare zitta. E se c’è una cosa che ho capito in 28 anni di vita è che sebbene tutti sostengano di voler vicino qualcuno di onesto, pronto ad affrontare i problemi, a dire le cose come stanno o anche a contraddire un loro comportamento, poi sono pochi quelli che vogliono davvero ascoltare le critiche. Ovviamente questa consapevolezza non mi ha impedito comunque di esprimere il mio disaccordo con conseguente cazziata. Ci sta. 

Ma se prima potevo avere un’idea piuttosto nebulosa e vaga di chi io fossi e mi cercassi disperatamente negli occhi degli altri, adottando le loro prospettive, facendole mie al punto da considerarle un’unità di misura valida e universale, oggi ho capito che l’unica a poter determinare l’entità di tutto ciò che mi riguarda sono io. Perché nessuno può e potrà conoscermi meglio di me stessa che ormai mi conosco come mai prima e non mi è servito nessun uomo, nessun fidanzato magico, nessun amore folle per riuscirci, nonostante Calvino c’insegna che sarebbe stato molto più poetico e romantico il contrario. Ho smesso di sforzarmi per cercare di incastrarmi in schemi, situazioni, punti di vista che mi andavano stretti perché il più delle volte non vale la pena vivere in apnea solo per paura del cambiamento o del contraddittorio. 

Proprio perché ora so chi sono e come sono, sento l’imperativo morale e categorico di non dovermi mai (s)forzare di nascondere o dissimulare qualcosa che, nel bene e nel male, fa parte di me. Che sia un’idea, un’opinione o semplicemente un modo di fare. Continuerò a essere la figlia a cui la madre ogni tanto rimprovera “non mi dici mai che mi vuoi bene!”, la fidanzata con sporadiche manifestazioni d’affetto, la nipote che regala sempre libri o calzini, l’amica che preferisce donare torte anziché abbracci. Sono certa non sia proprio un quadro allettante e che ci sia un margine di miglioramento sul quale lavorare giorno dopo giorno. Tuttavia sono altrettanto sicura che chiunque scelga di continuare a starmi accanto lo faccia consapevole di ogni pregio, difetto, limite, peculiarità a cui risponde il mio nome. E questo mi fa sentire onesta e accettata, mi fa sentire bene.

Ho passato anni convinta che il modo in cui mi vedessero gli altri, l’immagine di me nei loro occhi potesse determinare chi fossi e poi soltanto quando ho iniziato a dire e fare ciò che realmente volevo ho scoperto quanto sia vero il contrario: chi scelgo di essere determina chi sarò agli occhi delle persone. E loro sceglieranno comunque cosa vedere ma io saprò di non aver contribuito a questo gioco, di non aver truccato la partita.

Non voglio arrogarmi la presunzione di aver ragione io che probabilmente, alla luce di questa filosofia di vita, risulterò una stronza nove volte su dieci. Ognuno può e deve fare quello che vuole e ritiene sia più giusto per sé. Dico però che soddisfare sempre le aspettative altrui può sembrare la scelta più facile, la famosa “via comoda” ma solo all’inizio. Arriverà sempre il momento in cui chi siamo emergerà, salterà fuori prepotentemente. Basta un solo passo falso per far crollare l’immagine di sé che si è costruita e tirata su con pazienza e ponderatezza nel tempo, restando nudi. Senza appigli e giustificazioni. E forse anche soli.

 

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