Teen Age 2.0
Così la vita andò avanti anche dopo aver detto addio a Lorenzo. Dopo aver capito e fatto mio il prezioso concetto di “tempismo perfetto”. Ovviamente metterlo in pratica si rivelò molto più difficile e, in tutta sincerità, posso dire che ci sto ancora lavorando.
Al campo scuola in Tunisia avevo conosciuto un ragazzo, Valerio. Per qualche strana ragione Valerio era rimasto totalmente affascinato e divertito dalla mia persona.
Effettivamente in quegli anni, avendo recuperato una seppur minima dose di autostima – la luce alla fine del tunnel che era l’adolescenza iniziava a farsi sempre più vicina! – stavo prendendo via via consapevolezza della mia originalità.
Ero spaventosamente diversa dalle mie coetanee. Lo ero sempre stata, solo che fino ad allora avevo ricondotto questa differenza ad una sorta di stranezza. Mentre solo in quel momento, per la prima volta, iniziai ad interpretarla come una mia peculiarità. Una sorta di marchio di fabbrica.
Non ero di certo una bella ragazza, dovevo ancora sviluppare e il mio metabolismo doveva ancora ingranare. Non avevo nulla di particolare nell’aspetto che mi rendesse davvero desiderabile alla prima occhiata.
Insomma, ero carina ma non ero di certo una di quelle ragazze che le persone si giravano a guardare quando passava, come accadeva di continuo ad Ambra per esempio.
Però non mi crucciavo di questo. Sapevo di essere come un bel libro dalla copertina assolutamente anonima. E una volta che le persone si prendevano la briga di andare oltre la copertina, di leggere due o tre pagine, erano come risucchiati. E questo mi piaceva, tutto sommato. Mi faceva sentire non banale, non scontata. Una persona che andava contro ogni possibile previsione.
Fondamentalmente avevo una dialettica da far invidia, che forse è solo un modo carino per dire che ero logorroica.
Parlavo, parlavo, parlavo. Sembravo avere sempre e comunque un’opinione su tutto.
Allo stesso tempo sembravo anche vivere in una dimensione tutta mia, come la maggior parte delle persone che amano scrivere del resto. Incominciai a diventare molto selettiva sul chi far entrare nei miei pensieri, nelle mie cose, nel mio modo di guardare la vita.
Quando incominciai ad uscire con Valerio non ero nemmeno sicura di piacergli o che lui mi piacesse. Uscivamo sempre con gli amici, con quel gruppo sgangherato e stravagante che si era creato grazie al campo scuola e che ci saremmo portati allegramente dietro fino alla maturità.
Non ricordo bene come fu il nostro primo bacio, perché oggi pensare che ci siamo baciati mi sembra quasi strano. Ricordo invece come i suoi comportamenti nei miei confronti fossero strani. Valerio non voleva stare con me, ma nemmeno senza. Mi voleva molto bene. Vedeva una persona splendida in me, fiutava la mia fragilità nonostante io mi impegnassi a nasconderla dietro quella maschera fatta di cinismo, sarcasmo e risposte pungenti. Eppure non mi voleva e io non capivo perché. Anche quando poi mi vedeva catturare le attenzioni di qualcun altro, assumeva un atteggiamento molto protettivo nei miei confronti che mi confondeva.
Mi interrogai a lungo sul mistero Valerio, ma una risposta soddisfacente arrivò solo circa un anno e mezzo dopo il nostro incontro, quando ormai eravamo riusciti ad essere buoni amici, in pace con noi stessi e con lo strano rapporto che avevamo vissuto.
Era il giorno in cui uscivano i risultati dell’esame di maturità.
Voleva che fossi la prima persona a saperlo.
“A settembre entro in seminario”. Non dimenticherò mai il suono di quella frase nelle mie orecchie, come gli tremava la voce nel dirmelo.
Desideravo abbracciarlo ma allo stesso tempo ero attonita perché mi disse che doveva ringraziare soprattutto me. Io che avevo avuto un ruolo centrale e fondamentale in questa sua scelta.
Ero davvero felice per lui. Ma un po’ meno per me. Non era esattamente d’aiuto per la mia autostima di giovane donna. D’altro canto però mi consolai pensando che finché si trattava di competere con altre ragazze potevo anche tentare, ma di fronte ad un dio del quale non conoscevo nemmeno molto, persino io, regina indiscussa delle testarde, sventolavo bandiera bianca.
Io e Valerio però, nonostante le vite frenetiche, nonostante gli impegni così diversi, ci sentiamo ancora di tanto in tanto. E quando succede sembra che il tempo non sia mai trascorso, che siamo ancora quei due ragazzi del liceo, anche se sempre più responsabilità premono sulle nostre spalle e la diversità delle nostre scelte allontanano le nostre strade.
La cosa che mi piace delle strade è che non puoi mai dire con certezze dove arrivino, eppure io sento che le nostre sono inevitabilmente destinate a restare in contatto in qualche modo. Questo lo credevo anche quando ci eravamo conosciuti, ma probabilmente in un modo e con un significato totalmente diverso.
L’estate prima dell’ultimo anno di liceo fu molto strana.
Ci sentivamo tutti pervasi da un enorme senso di responsabilità: era l’ultima vera estate da liceali. Dovevamo renderla memorabile perché non avremmo mai più avuto un’estate così.
A renderla tale, nel mio caso, ci pensò il tumore che trovarono nella testa di mio cugino. Così in quel 2009 iniziò la sua lotta, persa in partenza, con una massa tumorale grossa quanto una palla da tennis che, dopo essere stata rimossa la prima volta, lo rese cieco. Ma il tumore non ci mise poi molto a ripresentarsi. A poco a poco perse la capacità di parlare, di muoversi. Due anni dopo, a 22 anni, morì tra le braccia di mia zia, lasciando un senso di vuoto con il quale l’ho vista fare i conti in modo coraggioso.
Prima dell’arrivo dell’estate io e Giada avevamo iniziato a frequentare un gruppo di amici della nostra nuova compagna di classe, Claudia.
Tra loro ce n’era uno con cui legai subito, Giacomo. Era grande e grosso, alto, con dei capelli folti e nerissimi, la carnagione scura, la barba e gli occhi di un marrone intenso. Andavamo molto d’accordo, mi faceva ridere – solo più un là ho scoperto quanto questo sia micidiale per noi donne – riuscendo sempre a strapparmi un sorriso.
All’inizio non avevo mai pensato a lui sotto una luce diversa da quella dell’amico. Finché non andai, a fine giugno, una settimana in montagna con degli amici.
E inspiegabilmente sentii la sua mancanza. Tanto.
La conferma che qualcosa era cambiato me la diedero due cose:
1) quando ci rivedemmo ero felice, troppo felice;
2) quando ci rivedemmo eravamo insieme ai nostri amici, tra cui Giada. Che ci osservò tutto il giorno.
“Ma che sta succedendo tra voi?” mi chiese una volta sole.
In realtà non lo sapevo nemmeno io e la cosa mi spaventava.
Poi il tumore di mio cugino mi fece tornare con i piedi per terra, ma ero sola in città e tutte le mie più care amiche erano ormai partite. Giacomo no, era rimasto in città.
Così iniziammo a passare le giornate insieme. Ora mi tirava su di morale, ora mi ascoltava, ora mi portava semplicemente a prendere un gelato.
E un giorno mi sentii in dovere di essere sincera, di dire “forse non dovremmo vederci più. O almeno non così spesso.”
Non mi chiese spiegazioni, non ne aveva bisogno. Lui, come Giada, aveva capito che qualcosa era cambiato tra di noi. Ma disse anche che non aspettava altro da quando mi aveva conosciuta.
Per un attimo, o anche qualcosa di più, ho pensato davvero che sarebbe iniziato qualcosa tra noi. Mi andava bene anche qualcosa che si avvicinasse vagamente ad un lieto fine. Ma il tempismo, ancora una volta, sembrò non voler essere dalla mia parte.
Non potevamo stare insieme, avremmo rovinato l’amicizia che c’era.
All’inizio la scusa ufficiale fu questa. Poi una sera, nella sua macchina, mentre se ne stava con la testa sulle mie ginocchia e mi chiedeva di accarezzargli i capelli, si alzò di scatto e mi baciò.
E non fu un bacio da amici. Non fu affatto un bacio casto e innocente. Probabilmente fu uno dei baci più appassionati che abbia mai ricevuto.
Di quei baci, di quei momenti con la ragione offuscata, di noi due intrecciati, di cose non fatte, di vestiti sgualciti ce ne furono altri.
Nonostante il mio cervello, in pochissimi e sporadici sprazzi di lucidità, tentasse di avvertirmi, di distogliermi dall’idea di imboccare quell’ennesima strada sbagliata, io andavo avanti e mi dicevo che avevo tutto sotto controllo. Per un po’ forse fu anche vero. Ma durò poco.
Più andavo avanti però e più perdevo il sentiero, la ragione, la sicurezza, il sangue freddo.
Mi stavo lasciando andare, mi stavo smarrendo negli occhi neri e nel sorriso dai denti bianchissimi di una persona che non sapeva dirmi cosa voleva da me. Che non voleva stare con me ma nemmeno senza. In ogni bella parola, in ogni bella promessa c’era sempre un ma a stringermi lo stomaco e a lasciarmi in balìa degli eventi, cosa che razionalmente mai avrei permesso.
Mi sentivo come una maratoneta che era arrivata per prima al traguardo, senza però trovare uno straccio di qualcuno ad attenderla. Quindi aspettavo lì, vicina ad un arrivo camuffato da punto di partenza per una storia che volevo solo io.
Ero arrivata prima e non potevo far altro che aspettare. Forse se avessi capito che lui non sarebbe mai arrivato, che non poteva e non voleva arrivare là, dove io stavo da un pezzo, non avrei sprecato tanto tempo e tante altre belle cose rimaste in attesa fino a diventare stantie.
Fu uno dei più grandi errori di giudizio che feci. Un errore fatto veramente bene, a regola d’arte. Un errore che mi sarebbe servito per il futuro, così come probabilmente serve un po’ a tutte.
Da una storia mancata che mi ha risucchiata inverosimilmente, da una persona che mi voleva ma non del tutto, ho imparato a capire come funziona il rispetto e quali sono le mezze verità che in queste circostanze non ci si dice mai.
Insomma, dopo aver sprecato per mesi tempo, energie e sentimenti dietro qualcuno che diceva di non volersi impegnare, ora so benissimo che il significato recondito di questa frase è: «non voglio impegnarmi con te e non importa quanto tu sia fantastica, non mi farai di certo cambiare idea».
Ed è questo che qualcuno dovrebbe insegnarci: non possiamo far cambiare idea ad un uomo. Non su cose così importanti almeno. Possiamo fargli cambiare idea sul cibo cinese, sulle scelte discutibili in fatto di abbigliamento, sulla marca di deodorante per ambiente, ma non su questioni così importanti.
Non siamo dei fottuti aspirapolveri, né dei venditori ambulanti. Non dobbiamo convincere nessuno a comprarci, a prenderci e tenerci con sé. Ecco perché quando un uomo pronuncia la fatale frase, non si può annuire con nonchalance mentre in realtà si pensa “tanto ti farò cambiare idea, mi troverai così meravigliosa che ti innamorerai di me”, perché tanto non succederà.
Se una persona non vuole impegnarsi con noi mentre noi lo vogliamo, se continua ad uscire con altre mentre noi gli abbiamo già dato l’esclusiva, se sottolinea di continuo che non siamo in alcun modo una coppia e la cosa non ci fa stare bene, non possiamo fare finta di niente.
La cosa migliore da fare è tagliare la corda. Prima di farsi male, prima di lasciarsi coinvolgere troppo da qualcuno e da qualcosa che non portano da nessuna parte.
Sono storie – vicoli ciechi.
Quando qualcuno non vuole impegnarsi con noi, non è un nostro problema. Nemmeno se ci dice che è per via di una cocente delusione passata. Quindi è inutile adoperarsi tanto per voler rimettere insieme tutti i pezzi del cuore di una persona che non ce lo ha chiesto. Diciamo un sonoro «NO» a questa maledetta sindrome da crocerossina che ci perseguita nei secoli dei secoli.
Ma io allora non potevo sapere. Come tutte, credevo davvero alla storia dell’uomo col cuore fatto a pezzi da una stronza e mi infuriavo anche. Con la stronza perché poteva aver compromesso la mia felicità, con lui perché faceva scontare a chi era arrivata dopo di lei le sue colpe.
Quindi restavo là, a farmi fare a pezzi, poco a poco.
Accettavo tutto. Accettavo di tenere segreta quella specie di relazione ai nostri amici. Accettavo di fingere che non fossimo niente di più quando eravamo tutti insieme, per poi lasciarmi rubare uno di quei nostri baci non appena restavamo soli. Accettavo di passare tutta la giornata in attesa di sapere se la sera ci saremmo potuti vedere, accettavo quella dipendenza dal telefono, quello stare perennemente a fissare lo schermo del cellulare aspettando che chiamasse.
“C’era la gelosia e tu che te ne andavi e correre da te quando per magia mi chiamavi”.
Nessun ragazzo mi ha mai tenuta così appesa ad un filo, nessuno mi ha mai fatta sentire insicura quanto lui.
Ho capito che quella non relazione mi stava distruggendo e che stava diventando esageratamente deleteria prima con lo stomaco che con la testa. Non riuscivo più a mangiare per il nervosismo che mi faceva compagnia notte e giorno.
Il mio stomaco non mente mai: quando qualcosa va storto il primissimo campanello me lo dà lui. Forse perché somatizzo molto il malessere psicologico, forse perché capisci di star bene con una persona quando l’appetito te lo fa venire e non passare del tutto.
Così ho iniziato un lento processo di disintossicazione. Piano piano. Non era facile, specie perché Giacomo era uno di quei terribili esemplari di uomo che non solo non vogliono stare con te ma che non accettano neanche di restare senza.
Ma riuscii a sopravvivere anche stavolta, rimettendo a posto tutti i pezzi, uno ad uno, sapendo per qualche strana ragione che prima o poi lui sarebbe tornato sui suoi passi.
Il problema era che io non sarei più tornata sui miei. Avevo sviluppato una patologica avversione al perdono, con la quale tuttora devo fare puntualmente i conti.
E poi iniziò l’ultimo anno di liceo. L’ultimo anno di un percorso che mi era sembrato immenso, interminabile a tratti, ma che ora mi pare l’equivalente di un battito di ciglia giusto un po’ più lungo del normale.
L’anno dei miei diciotto anni, tanto attesi. Quando sembrava che il mondo potesse starmi nel palmo di una mano e che potessi giocarci a mio piacimento, perché in fin dei conti non ero ancora troppo adulta per lasciarmi inghiottire.
Il periodo del mio compleanno avevo incominciato ad uscire con Carlo. Inizialmente i suoi modi piuttosto cavallereschi avevano catturato la mia attenzione, nonostante pensassi spesso alla storia mancata con Giacomo. Ma non volevo restare a crogiolarmi sui cocci di qualcosa che mi aveva soltanto procurato una quantità esagerata di insicurezze.
Carlo mi faceva sentire la ragazza più straordinaria del mondo, forse si impegnava fin troppo affinché io mi ci sentissi. Era premuroso ai limiti della sopportazione, romantico alle soglie del diabetico.
Quindi dopo le prime due settimane iniziai ad essere vagamente irritata da tutte quelle attenzioni.
Probabilmente non ero pronta per qualcuno che desiderasse così tanto far parte della mia vita sotto ogni possibile punto di vista, per qualcuno che volesse conoscere non solo me ma anche il mio mondo, la mia famiglia, la parte più nascosta di me.
Ma io sapevo che tutte queste cose non c’entravano nulla con noi, soprattutto con lui, così diverso. Ero convinta che non avrebbe potuto cogliere i dettagli, le sottigliezze, e mi stavo rendendo conto sempre di più che questo era ciò che desideravo dalla vita, dall’amore, da un rapporto: qualcuno che sapesse cogliere i miei dettagli.
Carlo, poverino, non riusciva a cogliere nemmeno le mie richieste esplicite. Forse è per questo che quando tornai dopo quattro giorni dalla Polonia pensò bene di venirmi a prendere in aeroporto con mio padre, Giada ed un mazzo di rose più grande di me, nonostante gli avessi chiaramente detto che non avevo la minima intenzione di fargli conoscere la mia famiglia o di conoscere la sua.
Dunque neanche due mesi dopo la nostra frequentazione arrivò al capolinea e a me restarono svariati mazzi di fiori rinsecchiti e nuove aspettative.
E con l’inizio del 2010 incominciai a focalizzarmi su cose decisamente più importanti: l’esame di maturità, ma soprattutto la scelta dell’università.
In realtà sapevo da sempre cosa volevo fare. Tutto ciò che desideravo era scrivere, continuare a studiare la letteratura ed approfondire ogni singolo aspetto di quegli autori nelle cui parole mi perdevo e mi ritrovavo in continuazione. Dovevo solo decidere dove farlo, in quale università.
Ammetto che per un attimo fui colta dalla paura di fare la scelta sbagliata.
In fondo mi era già capitato di sbagliare così tante volte e in così tanti aspetti della vita. Anche con il liceo non ero stata poi così fortunata.
Ci fu un momento in cui pensai che non avrei mai combinato niente nella vita con una laurea in Lettere, che forse avrei dovuto fare una scelta più razionale e logica, valutare una facoltà come Medicina. Poi più di qualcuno mi disse che ignorare una vocazione così vivida sarebbe stato uno spreco, un peccato. E la mia famiglia in primis mi ricordò che i sogni non si possono uccidere quando si hanno solo diciotto anni.
Di fatto però la decisione ufficiale l’avrei presa soltanto con la fine definitiva del liceo.
L’ultimo anno di superiori credo sia stato uno dei periodi più belli della mia vita. La spensieratezza, la sensazione di andare verso qualcosa di ignoto ma allo stesso tempo il senso di responsabilità di cui ci sentivamo tutti investiti e quella bellissima e sbagliatissima convinzione di avere il mondo ai nostri piedi furono la meravigliosa cornice di un periodo che nessuno di noi avrebbe dimenticato.
Quell’anno andammo in campo scuola a Malta – di cui ricordo soltanto una folle vita notturna e nient’altro – e credo che quello fu il momento in cui realizzammo che mancavano pochi mesi alla fine di un percorso che non sapevamo cosa ci riservava, dove ci avrebbe portato. Ma non ci pensavamo davvero, in realtà tutto ciò che contava allora era divertirsi insieme, come se sapessimo che non ci sarebbero più state occasioni come quella per essere così uniti.
E poi di lì a poco la scuola volse al termine.
Arrivò l’ultimo giorno di scuola. L’ultima ora dell’ultimo giorno di scuola dell’ultimo anno.
Credo sia impossibile raccontare la sensazione che un non-più-adolescente/quasi-adulto prova quando guarda un ultima volta i banchi della sua classe, il banco in cui spesso scriveva le formule di matematica, mischiandole alle canzoni e ai disegnini. Quando guarda quelli che per anni sono stati i suoi compagni di classe, ma soprattutto quando guarda quelli che, all’inizio, erano perfetti sconosciuti e poi sono diventati parte fondamentale della sua vita, consapevole che non saranno più lì alle otto di mattina di tutti i giorni ad aspettarlo per superare insieme un’altra giornata.
Dicono che le amicizie più importanti della vita nascano proprio al liceo e per qualche tempo io ci ho anche creduto. Ora invece credo che le amicizie più importanti, che potrebbero accompagnarti davvero per buona parte della vita, siano quelle che sopravvivono alla fine del liceo.
È come se ci fosse una sorta di selezione naturale e, a poco a poco, restino soltanto le persone che hanno saputo e continuano a sapersi prendere cura di un rapporto che affonda le radici in un tempo che, di fatto, non c’è più. Un rapporto che non dimentica il passato ma al contempo sa comunque rinnovarsi di continuo, nonostante le parti coinvolte cambino giorno dopo giorno.
La notte prima degli esami c’era un ragazzo che mi dava baci di incoraggiamento, c’era un gruppo di amici che non avrei più rivisto unito come in quei momenti, c’era la mia amica Giada che mi teneva la mano come a volermi dire “siamo sopravvissute insieme a tante cose, supereremo anche questa”, c’era la canzone di tutti i maturandi a dirci che quella notte era ancora nostra mentre scattavamo le ultime foto ricordo davanti al cancello da varcare il giorno dopo con un vocabolario sotto il braccio.
La notte prima degli esami è l’unica notte, in tutta la giovinezza, in si sente che la propria vita sta per cominciare e in cui, per la prima e l’ultima volta, l’ignoto non fa paura.
Io quella notte non avevo paura di quello che ci sarebbe stato dopo ad aspettarmi. L’unico tarlo che continuava a tormentarmi era il presentimento che non mi sarei mai più sentita come quella notte.
Gli esami andarono alla grande, li trovai persino divertenti. Il tema d’italiano e la versione di greco furono un successone. La professoressa esterna d’italiano, quando mi sentì balbettare che stavo pensando di iscrivermi a medicina all’università, mi disse: “Medicina? Sarebbe un peccato mettere da parte una così evidente predisposizione per la scrittura”.
Fu una conferma, un’altra, del fatto che a quanto pareva la mia strada, almeno per il momento, dovesse essere quella. E l’aver sentito quel commento uscire dalla bocca di una perfetta sconosciuta per me contò più di tutto. Perché avevo sempre avuto il timore che chi mi conoscesse, sapendo quanto ci tenessi, quanto contassero per me le parole gettate nel fondo della carta, mi assecondasse. Ma lei, quella professoressa con i capelli scuri di cui dimenticai il nome il giorno dopo la fine degli esami, non poteva aver alcun interesse nell’usarmi una simile premura.
Quindi decisi che per una volta mi sarei fidata del giudizio di qualcun altro. Decisi di credere che avrei sprecato quell’unica capacità che a quanto pareva possedevo, se non c’avessi almeno provato. Andai in vacanza con quest’unico pensiero: “Forse dovrei iscrivermi a Lettere, forse devo davvero scrivere nella vita”.
Quell’estate fu l’ultima estate spensierata della mia vita. Dall’anno successivo mi sarei ritrovata impelagata in quell’odiosa tortura nota agli studenti universitari come “sessione estiva”, il che significava finire di studiare a metà luglio per riprendere al massimo tre settimane dopo.
I tre mesi di vacanze a cui la scuola dell’obbligo mi aveva abituata si sarebbero dunque ridotti notevolmente. Forse è stato anche in luce di ciò che decisi di spassarmela e godermela fino all’ultimo giorno.
Continuai ad uscire con il ragazzo che frequentavo senza impegno da prima della maturità, ma poi partii per la Sardegna con Giada. La nostra destinazione era la piccola, splendida isola della Maddalena.
Ammetto che i primi giorni provai una sorta di nostalgia, insomma ero lì con un occhio sempre puntato sul cellulare, in attesa di leggere un suo sms o di una chiamata.
In fin dei conti mi piaceva, mi trovavo bene nonostante fosse l’ennesimo maschio problematico non degno di nota nella mia vita. Avevo deciso di tollerare questo fastidioso dettaglio soltanto perché era tremendamente bello.
Ma poi, come da copione, il cellulare veniva lasciato sempre più spesso e sempre più a lungo nel fondo della borsa dove mi dimenticavo persino di averlo messo, e i miei occhi vennero totalmente rapiti da qualcosa di molto più piacevole da guardare: Gabriele.
Fiorentino, alto, sorriso vago, occhi verdi e sfuggenti, l’aria da imbranato. Una combinazione micidiale, specie se sommata ad un accento irresistibile.
C’era una certa intesa tra i nostri modi di fare che molto avevano in comune l’un l’altro: l’ironia, la perenne voglia di scherzare e ridere, il nasconderci un po’ dietro questa spensieratezza, la paura di crescere e di mostrarci per quello che eravamo davvero. Capii quanto fossimo in sintonia quando una sera, mentre mi accudiva perché ero un po’ brilla, dopo esserci fatti cacciare fuori da un locale, mi confidò di aver perso da poco uno dei suoi migliori amici. Era morto in un incidente. Un frontale con un ubriaco che si era messo al volante.
E nonostante il gin tonic mi avesse annebbiato i sensi e la vista, mi resi immediatamente conto di quanto significasse. Mi bastò guardarlo, sollevare la testa dal suo petto e guardarlo negli occhi, per capire che quelle non erano chiacchiere per chiunque, eppure aveva pensato di sputarle fuori con me. Questo mi fece sentire importante, mi fece sentire come se, inspiegabilmente, meritassi quelle parole solo per il fatto d’essere come ero.
Furono le tre settimane più divertenti di tutto l’anno e desideravo ardentemente non finissero mai. Ero nel bel mezzo di un innamoramento estivo DOC.
Gli elementi c’erano tutti: io, lui, il mare, la sensazione che nessuno ti abbia mai capita come lui, due città diverse.
Che poi, a ripensarci adesso, Firenze e Roma sono ad un’ora di treno. Ma se oggi prenotare un biglietto del treno mi richiede meno tempo che comprare un paio di scarpe online, allora sembrava qualcosa di troppo complicato. E quando una storia sembra essere troppo complicata o anche solo vagamente impossibile, è chiaro che ogni ragazza impazzisce.
Così impazzii, perché non volevo essere da meno.
Dopo quelle tre settimane di idillio e risate, una volta tornata a Roma si manifestò subito in modo concreto la follia.
Decisi di andarlo a trovare a Viareggio, dove passava la seconda metà di agosto con la famiglia. Io alla mia dissi che sarei andata a trascorrere il weekend a Nettuno da un amico.
Invece mi buttai per più di cinque ore sul sedile di un treno regionale per sciogliermi di felicità quando, arrivata alla stazione, c’era lui col suo sorriso scanzonato ed il motorino ad aspettarmi.
E le corse in motorino con il costume ancora bagnato sotto i vestiti e i capelli che profumavano di salsedine riassumevano bene la nostra non-storia estiva che avrebbe reso ancora più malinconico l’inverno che sarebbe venuto. La cosa davvero assurda è che non ci fu mai nemmeno un bacio. Questo perché, contrariamente a quanto credevo, ero – e purtroppo sono tuttora – una persona che molto spesso teme le conseguenze delle cose importanti. E sapevo che quel bacio, quel bacio che in più di un’occasione ci saremmo potuti scambiare, avrebbe reso tutto estremamente più complicato di quanto già non era e sarebbe stato. Perché mi conoscevo. Sapevo che non appena avrei ripreso il treno che mi avrebbe riportata a Roma, non appena le porte di quel cadente treno regionale si sarebbero chiuse e l’immagine di Gabriele sarebbe diventata un puntino lontano sulla banchina di una stazione, avrei sentito un gran vuoto dentro. Il vuoto di quando perdi qualcuno di prezioso per forze maggiori, per circostanze insormontabili. E allora la mia mente avrebbe ingrandito tutto: una cotta estiva si sarebbe trasformata nell’Amore della vita, nella storia perfetta che avevo sempre voluto e che, destino infame, non potevo avere. Avrei passato più e più volte in rassegna ogni singolo momento trascorso con lui, ogni volta in cui mi aveva guardata come volevo essere guardata, ogni volta che mi aveva tenuto la mano quando desideravo lo facesse, ogni volta in cui mi aveva fatto ridere e dimenticare il resto del mondo. E se ci fosse stato un bacio, un bellissimo bacio, a cui ripensare e per cui struggersi, sarebbe stato ancora peggio.
La sensazione di aver dovuto rinunciare a qualcosa di perfetto sarebbe stata insostenibile. Quindi scelsi la via più facile: quella del rimpianto.
Non so se questo mio modo di approcciarmi ai rapporti sia dettato da una smisurata paura o sia soltanto lo strascico di anni e anni di letture austeniane.
In ogni caso, ho capito una cosa per me fondamentale: molto spesso è meglio quando queste situazioni non arrivano ad un punto di svolta.
Perché poi, quando smettiamo di arrovellarci e passiamo alla rottura di palle successiva, ci resta il ricordo di quello che avrebbe potuto essere e non è stato – e quasi sempre pensiamo ad una bellissima storia – quando poi, con ogni probabilità, se la cosa avesse funzionato, dopo l’entusiasmo iniziale sarebbe subentrato puntualmente l’inevitabile crollo delle aspettative.
Un po’ come quando si trova il vestito tanto desiderato e provandolo si scopre che ci sta una vera schifezza.
In questi casi trovo molto più poetico e divertente pensare a quello che sarebbe potuto essere piuttosto che avere la certezza di quello che è stato, perché mi conosco e so che la realtà, almeno finora, non è mai mai mai riuscita ad essere migliore della mia immaginazione.
L’università fu come un’enorme vasca di squali nella quale d’improvviso qualcuno mi aveva gettata. I primi tempi prevalse una sensazione di abbandono a me stessa. Nessuno che mi guidasse, nessuno che mi imboccasse le cose, che mi indicasse quale fosse la strada da seguire, la cosa giusta da fare.
Probabilmente fu quello il periodo, un vero e proprio spartiacque tra il prima e il dopo, in cui recisi qualsiasi forma di cordone ombelicale con l’adolescenza, con il mondo ovattato che avevo vissuto fino ad allora.
Ad un tratto la vita, con la responsabilità di dover scegliere per me e da me, si era palesata senza alcun preavviso. Un trauma tanto necessario quanto fisiologico.
Ma non mi abbattevo e avevo un unico grande imperativo categorico a guidarmi: non volevo perdermi niente. Non una lezione, non una pausa davanti alle macchinette, non un’occasione di chiacchierare con qualcuno. L’università non sarebbe stata come il liceo, oh no. Avevo deciso che quei cinque anni sarebbero stati memorabili, sin dal primo giorno. In realtà ero anche piuttosto sicura che avrei incontrato l’uomo della mia vita tra quei corridoi, insomma, ero pur sempre a Lettere. Come potevo non incontrare qualcuno con i miei stessi interessi, le mie stesse passioni?
Effettivamente incontrai molte persone, alcune delle quali diventarono amicizie indispensabili e fondamentali.
Ma nella mia testa di tanto in tanto ancora faceva capolino il sorriso di Gabriele, al quale scrivevo lunghissime lettere che ovviamente non mandavo. E mi rimproveravo da sola, dicendomi “Alice, accidenti a te Alice, vai avanti, non fare come al tuo solito che ti fossilizzi su qualcosa che non esiste, vai avanti e vivi la vita vera”.
Però la vita vera era spaventosa. Ed io iniziavo a maturare la convinzione di non essere proprio portata per i rapporti, per le relazioni, le “storie”, l’amore quello vero. Io, così sognatrice ma così tanto cinica e piena di riserve nei confronti della realtà da sempre. E si sa, amore e cinismo non vanno proprio a braccetto. Tutte le mie amiche si innamoravano, si lasciavano andare, si facevano male, permettevano a qualcuno di far loro il cuore in pezzi che poi rimettevano insieme. Non io. Io ero sempre lì a raccontarmi un sacco di storie per proteggermi, per scappare dalla realtà. Ma la verità era che queste storie mi stavano intrappolando.
Cercavo di capire cosa volessi, chi fossi. Ero circondata da persone che più o meno mi avevano inquadrata, in qualche modo. Si erano fatte un’idea di me. Anche io volevo farmi un’idea di me, ma ero talmente incostante sotto ogni aspetto che proprio non ci riuscivo.
Il cambiamento in corso fu una vera e propria scossa di terremoto che fece vacillare le pochissime certezze che avevo. Mi sentivo smarrita al punto da chiedermi dov’è che stessi andando, dov’è che mi avrebbe portata quella strada che lentamente avevo iniziato a tracciare.
Era stato un attimo: un momento ero io e poco dopo al mio posto c’era qualcun altro, un’altra me, ma con gli stessi occhi, lo stesso viso e la stessa voce. Eppure non mi sentivo più quella che ero prima. I ricordi mantenevano viva la memoria di ciò che ero ma non aiutavano a capire chi fossi. Chi stavo diventando o chi volevo diventare. E più ripensavo a chi ero stata fino a poco prima, a ciò che avevo fatto, detto, pensato, più mi sentivo lontano da me stessa al punto da sentirmi quasi come un’estranea che guardava scorrere su una pellicola muta i ricordi di qualcun altro.
Così, con in tasca un sacco di ricordi e di interrogativi, con la paura di non sapere assolutamente nulla, saltai. Una gamba dopo l’altra. Saltai e dissi ciao alla me adolescente, alla me con cui, tutto sommato, ero riuscita a convivere e sopravvivere per diciannove anni.
Saltai e approdai in quella sorta di limbo che precede l’età adulta, una specie di purgatorio nel quale mi sembra di essere tuttora, con una consapevolezza diversa per forza di cose e di esperienze. L’insegnamento più grande probabilmente mi deriva proprio dai primi tre anni di università. Gli anni in cui ho davvero capito chi volevo essere, chi volevo diventare, ma soprattutto che non avevo motivo di nascondermi dietro fattezze che non mi appartenevano.
Per la prima volta, in tutta la mia vita mi resi conto di cosa significava stare bene nei propri panni. In quei tre anni per la prima volta mi sorpresi ad essere felice di essere me e nessun’altra. Finalmente consapevole delle mie capacità, di essere pronta per il dopo, qualsiasi cosa ci sarebbe stata ad aspettarmi.
E sicuramente parte di questo processo, di questa presa di consapevolezza fu anche merito della persona nella quale mi imbattei, di nuovo, poco prima del secondo anno di università.
Mattia. Ancora Mattia.