Libri preferiti del 2016

Quest’anno sono riuscita a leggere tantissimo, complice sicuramente l’aver detto ciaociao alla Sapienza a gennaio. Dopo mesi e mesi trascorsi con il naso incollato alle pagine del buon Pier Paolo Pasolini avevo bisogno di una pausa di riflessione dalla letteratura particolarmente impegnata e impegnativa.
Ho letto l’intera saga dell’Amica geniale, che secondo me è un’ottima lettura da ombrellone, ho iniziato la trilogia di Katherine Pancol perché avevo bisogno di qualcosa di francese e credo proprio la porterò a termine perché trovo la sua scrittura estremamente piacevole.
Ma ci sono dei libri che mi hanno folgorata, libri che avevo da parecchio sulla mia celeberrima lista “Libri da leggere” (che ovviamente continua a crescere e non vede mai fine), libri a cui mi ero ripromessa di dedicarmi una volta fuori dall’università.

La più grande scoperta di quest’anno è stata senza dubbio Banana Yoshimoto. Tre anni fa avevo provato a leggere “Sly” e non mi era piaciuto granché al punto da non voler nemmeno provare a fare un nuovo tentativo. Ma poi in primavera, spulciando tra gli scaffali di uno dei tanti negozi dell’usato scoperti in centro, ho trovato una vecchia copia di “Kitchen” e, a parte il prezzo stracciato, per convincermi a comprarlo mi è bastato leggerne le prime tre righe: “Non c’è posto al mondo che io ami più della cucina. Non importa dove si trova, com’è fatta: purché sia una cucina, un posto dove si fa da mangiare, io sto bene.

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Non credo nel fato, nel destino o in qualsiasi forza superiore che influenzi l’andamento degli eventi. Credo solo nel caso (e mi piace anche crederci), mi piace pensare che le cose accadano per puro caso e che siamo noi a scegliere il significato da attribuire a tutto ciò che capita. Quindi l’aver trovato questo libro in un momento in cui dovevo sapere che il dolore e la consapevolezza del poter commettere sbagli proprio come tutti non hanno il diritto di condizionare chi sento di voler essere, è stato un caso.
Un caso di cui avevo bisogno.
In modo altrettanto casuale mi sono lasciata consigliare dal mio amico bibliotecario – sì, ho la tessera a pagamento delle biblioteche di Roma perché il prestito interbiblioticario è l’unico modo per non lasciare tutti i miei averi nelle librerie – la lettura di “Un giorno tutto questo dolore ti sarà utile“. Mi ha convinto quando mi ha detto che era ricco di poesia sottile e lo confermo. E poi Peter Cameron lancia perle di saggezza interessanti, come l’aneddoto su Proust del quale lui stesso ha confessato: “Quando ero al liceo e dissi ad un mio amico che volevo leggere tutto Proust lui mi ha detto:Non lo fare. Non prima di avere vissuto un grande amore con tanto di delusione e tradimento.  Aveva ragione e l’ho inserito in Un giorno questo dolore ti sarà utile”.  Quindi sì, ok, soffrire fa abbastanza schifo ma ci rende persone magari non migliori, ma più perspicaci e profonde.  “Sii forte e paziente,un giorno questo dolore ti sarà utile“.

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Sempre per rimanere in tema “impara ad apprezzare la solitudine e sarai una persona se non migliore almeno più forte” c’è un saggio di Robin Norwood che secondo me tutte le donne dovrebbero leggere una volta nella vita. Per ricordarci che mettere un’altra persona prima di se stesse è il peggior torto che possiamo farci, per aprire gli occhi a chi crede che l’amore per essere definito tale debba comportare sofferenza e travaglio, per aiutare a ritrovare la voglia di amare le donne che invece hanno avuto maggiore considerazione per i bisogni di qualcun altro che per i propri.
Cosa significa amare troppo? La Norwood (che è una psicoterapeuta, non una chiacchierona qualunque) lo spiega nella prima pagina del saggio:
“Quando essere innamorate significa soffrire, stiamo amando troppo. Quando nella maggior parte delle nostre conversazioni con le amiche intime parliamo di lui, dei suoi problemi, di quello che pensa, dei suoi sentimenti, stiamo amando troppo.
Quando giustifichiamo i suoi malumori, il suo cattivo carattere, la sua indifferenza, o li consideriamo conseguenze di un’infanzia infelice e cerchiamo di diventare la sua terapista, stiamo amando troppo.
Quando leggiamo un saggio divulgativo di psicoanalisi e sottolineiamo tutti i passaggi che potrebbero aiutare lui, stiamo amando troppo.
Quando non ci piacciono il suo carattere, il suo modo di pensare e il suo comportamento, ma ci adattiamo pensando che se noi saremo abbastanza attraenti e affettuose lui vorrà cambiare per amor nostro, stiamo amando troppo.
Quando la relazione con lui mette a repentaglio il nostro benessere emotivo, e forse anche la nostra salute e la nostra sicurezza, stiamo decisamente amando troppo.
A dispetto di tutta la sofferenza e l’insoddisfazione che comporta, amare troppo è un’esperienza tanto comune per molte donne che quasi siamo convinte che una relazione intima debba essere fatta così. Quasi tutte abbiamo amato troppo almeno una volta, e per molte di noi questo è stato un tema ricorrente di tutta una vita. Alcune si sono lasciate ossessionare tanto dal pensiero del loro partner e della loro relazione, da riuscire appena a sopravvivere.” 

 

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Ci sarebbero così tante cose da dire su questo libro che pensavo di scriverci un post apposito, come ho già fatto per l’altro libro che finalmente ho letto quest’anno e che, come supponevo, m’avrebbe dato l’impressione di trovare diversi pezzetti di me tra le sue pagine. Estremamente diverso dal film ma altrettanto bello, Colazione da Tiffany di Truman Capote è stato la mia lettura estiva preferita. Qui ho spiegato un po’ le differenze tra la pellicola – con la splendida Audrey – e il libro che ha un finale un tantinello diverso.

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