Sono donna e il più delle volte sono tremendamente felice del mio sesso.
Sono una portatrice fiera di doppio cromosoma X e fa quasi sorridere se ripenso che venticinque anni fa i miei non avevano minimamente preso in considerazione la plausibile eventualità che il figlio in arrivo potesse essere femmina (non mi sono mai lasciata guardare nelle ecografie, simpaticissima fin da subito).
Non so se questo possa avere qualcosa a che fare con il profondo senso di gratitudine e appartenenza verso il mio genere. Sono sempre stata affascinata dalle donne, dai ruoli che ricoprivano e ricoprono nella società e nella vita. Le mie Barbie erano donne tuttofare, non c’era una cosa che non fossero in grado di affrontare: sapevano cucinare, rassettare la casa, guidare la moto con il tacco 12 – non avevo la macchina di Barbie quindi dovevo accontentarmi della moto – ed erano veterinarie di successo, cuoche stellate o maestre intelligentissime. E non le lasciavo di certo accoppiare con un Ken qualunque. Per queste super donne mi sembrava più appropriato un super uomo, ecco perché la scelta ricadeva sul mio adorato Power Ranger rosso, amante focoso di tutte le mie Barbie che però si guardavano bene dal metterselo dentro casa.
Insomma, non sono mai stata una di quelle bambine per cui il futuro ideale aveva i connotati di uno spot della Mulino Bianco. Di conseguenza sono diventata una ragazza ambiziosa con il principale obiettivo di realizzare me stessa e i miei sogni di gloria. I miei modelli erano donne rivoluzionarie e straordinarie perché determinate a prendersi ciò che volevano. Donne come Jane Austen, Edith Piaf, Margherita Hack, ma anche Jo March, Hermione Granger, Anna dai capelli rossi. Oggi, con una cognizione maggiore derivatami da esperienze altrui e dai comportamenti delle persone circostanti, sono piuttosto consapevole di quanto sia difficile per una donna fare delle scelte liberamente. Quello che intendo è che per il mio genere è praticamente impossibile prendere una decisione senza provare la fastidiosa sensazione di “tradire” in qualche modo l’essenza del proprio sesso, quell’insieme di norme non scritte ma che si tramandano da sempre.
Potrei fare un elenco infinito di esempi, a cominciare da quando una volta all’università ho detto ad alcune compagne “io non credo avrò figli” e un ragazzo, avendomi sentita ha pensato bene di chiedermi “perché, sei sterile?”. E ho trovato a dir poco penoso dover giustificare a qualcuno il motivo per cui diventare madre non è un mio desiderio, sottolineando che non tutte le donne devono necessariamente trovare piena realizzazione nel mettere al mondo un bambino. Quello che mi sono domandata tra me e me è stato “perché se dico che non voglio figli mi viene chiesto il motivo mentre se dico di voler sfornare dieci bambini urlanti nessuno lo fa?”
Resto ugualmente perplessa quando vedo mamme sgridare le bambine se usano un linguaggio sboccato dicendo “Sei una femminuccia, tu queste parole non le devi dire!” come se invece ai maschi fosse concesso solo in quanto maschi.
Ma una delle più grandi discriminazioni che gravano sul nostro genere, nonostante i passi avanti dell’emancipazione, riguarda la vita sessuale. In particolar modo la disinvoltura con la quale noi ragazze la viviamo, la consideriamo e, perché no, la raccontiamo.
La masturbazione femminile è ancora un tabù imbarazzante in primis tra le donne stesse. Ci sono ancora persone – uomini e donne, sia chiaro – che a sentire la frase “ieri ho fatto un pompino a Tizio” arricciano il naso perché certe frasi in bocca ad una donzella stonano, infastidiscono. Esistono ancora uomini che si lasciano turbare dai trascorsi sessuali di una donna, uomini che magari fino alla settimana prima lo davano via come il pane.
Ancora troppo spesso la disinibizione nel vivere e nel parlare della propria sessualità viene equiparata all’essere di facili costumi. Ed è vero anche il contrario: quando una fanciulla fa un po’ la difficile si becca in un attimo l’epiteto di “figa di legno”.
Siamo il sesso che se raggiunge posizioni di potere allora sicuramente si è inginocchiato sotto qualche scrivania, siamo quelle che se troppo carine e dedite alla cura del proprio aspetto di certo stupide come sassi, quelle che se troppo intelligenti spaventano gli uomini e quindi destinate a restare zitelle.
Ma siamo pure quelle che se decidono di uscire in minigonna devono stare attente e sopportare gli sguardi altrui, perché non sia mai che una donna indossi una mini solo per puro gusto personale, o quelle che non possono sentirsi mai tranquille nel tornare a casa di notte da sole.
Il nostro corpo non è mai abbastanza.
Non è mai abbastanza magro, non è mai abbastanza formoso, non è mai abbastanza depilato, non è mai abbastanza curato, non è mai abbastanza valorizzato.
Non è mai abbastanza scoperto. Non è mai abbastanza coperto.
Basti pensare al polverone sul burkini.
Io vorrei un attimo capire dov’è che normalmente le persone nascondono tutta questa premura nel battersi per la libertà di scelta femminile quando poi per offendere una donna vengono scomodati appellativi quali cagna, mignotta, zoccola, varie ed eventuali.
O quando si storce il naso davanti ad una taglia 48 in bikini, perché “dai, copriti, un po’ di decenza. Ma che non ce li hai gli specchi a casa?!”
O ancora quando si ridacchia come perfetti pirla quando in metro una ragazza mangia una banana.
O quando, nel ventunesimo secolo, si trova il coraggio di giudicare una donna per la disinvoltura e la libertà con la quale decide di vivere e gestire il proprio corpo e la propria vita sessuale.
Il burkini, che tanto ha scaldato gli animi e infiammato le coscienze occidentali, non è altro che una muta da sub e probabilmente se si fosse chiamato in modo diverso non avrebbe suscitato così tante polemiche. La cosa che più mi lascia perplessa però è proprio l’ipocrisia di chi si sta erigendo a paladino dei diritti civili femminili e dimentica la cosa più importante: ci sono donne che VOGLIONO indossare il burkini, che vogliono essere velate e coperte dalla testa ai piedi. Ed imporre loro di non farlo non è poi tanto diverso dal costringerle a portare un burka. Che poi l’idea alla base sia discutibile è un altro paio di maniche. Ma non è di certo questo il modo più efficace per sradicare determinate idee, determinate convinzioni da un popolo che le porta avanti con accanimento da anni.
Allo stesso modo poi ci sono donne che VOGLIONO essere riprese mentre fanno sesso, mentre fanno un pompino, mentre fanno quello che generalmente piace tanto fare e ricevere a tutti ma questo non implica la tacita ed automatica accettazione del fatto che il suddetto video venga sbandierato a destra e manca. Ci sono donne che VOGLIONO parlare della propria vita sessuale con la stessa libertà e facilità con cui può farlo un uomo, con le stesse parole con cui può farlo un uomo, senza per questo doversi sentire delle scostumate, delle persone sporche.
E, pensate un po’, ci sono donne che vogliono mettersi minigonne, vestiti striminziti e tacchi vertiginosi senza però venire importunate o, nella peggiore delle ipotesi, stuprate.
Quindi magari, invece di parlare inutilmente, di essere sempre pronti a puntare il dito e a battersi il petto, sarebbe preferibile incanalare tutto questo desiderio di uguaglianza e civiltà nella propria quotidianità e in modo concreto. Perché la violenza è anche questa. È lo schiaffo, è l’acido che brucia e deturpa il viso, è sentirsi attaccare addosso etichette, è lasciare che cancellino la propria identità, è permettere agli altri di dire chi siamo, è restare in silenzio.
Gandhi disse: “sii il cambiamento che vuoi vedere nel mondo”.
Ecco. Iniziamo da qui e da noi, perché ce n’è di lavoro da fare e di certo non siamo ancora un popolo che può andare a dispensare lezioni di parità di genere.