Sebbene Audrey Hepburn sia ormai da tempo l’icona e la bandiera di tutte le caciotte che, per ragioni a me ignote, si scomodano a battersi per classe ed eleganza indossando shorts di jeans sdruciti giro chiappa di discutibile gusto, non posso e non potrò mai mettere da parte la mia adorazione nei suoi confronti per via di costoro.
Audrey Hepburn è stata davvero la rivincita della finezza, la dimostrazione che per essere femminili e affascinanti non sono indispensabili forme generose e provocanti.
Sicuramente il film per il quale è più conosciuta e che tutti hanno visto almeno una volta, quello che fa impazzire la maggior parte delle caciotte sopracitate, è Breakfast at Tiffany’s del 1961 di Edwards con George Peppards.
Quello che non proprio tutti sanno è che la straordinaria pellicola vincitrice di due statuette è liberamente tratta da un libro. Uno splendido libro scritto da Truman Capote, personalità di rilievo nel giornalismo americano (magari un giorno scriverò un post su di lui, nel frattempo potete soddisfare la vostra curiosità con Wikipedia).
Libro e film sono però estremamente diversi e come sempre la cosa mi turba parecchio. Però questo è stato uno dei pochi casi in cui ho letto il libro dopo aver visto – e rivisto – il film, quindi a onor del vero non posso schierarmi in favore assoluto dell’uno o dell’altro.
Anche perché il film è soltanto ispirato al libro: personaggi e situazioni vengono riproposte sì, ma rivisitati abbastanza profondamente.
Basti pensare che Capote stesso disse di immaginare Holly come una femme fatale alla Marilyn, di quelle con la risatina un po’ scema e lo sguardo irresistibile. Audrey Hepburn a mio avviso è lontana anni luce da quel genere di donna e ha dato a Miss Golightly quell’aria sbarazzina e chic che nel libro viene un po’ meno.
Paul Varjack nel libro è la voce narrante: è lui a raccontare in prima persona la storia di Holly, la giovane che abitava nel suo stesso palazzo a New York. Nel film Paul è il coprotagonista, un aspirante scrittore senza un soldo che finisce nell’Upper East Side perché mantenuto da una donna sposata con la quale ha una relazione. L’amante di Paul nel libro non esiste affatto.
Nel film invece non c’è il barista Joe, innamorato di Holly. Nel suo bar sono ambientati numerosi episodi cruciali della storia raccontata da Paul.
Il libro incomincia con una foto mostrata da Joe a Paul. La foto, scattata dal signor Yunioshi, ritrae una statua africana con le fattezze di una giovane donna identica a Holly Golightly.
La modella Meg Wildwood, che ne film appare soltanto durante una festa in casa Golightly, nel romanzo è molto più presente. Per un periodo di tempo convive con Holly e attraverso il loro rapporto e le loro conversazioni Capote lascia intendere al lettore che la protagonista sia bisessuale.
Nel libro il motivo principale per cui Holly decide di trasferirsi in Brasile con José è un’inaspettata ma benaccetta gravidanza. La giovane ha un aborto spontaneo la notte del suo arresto per via del suo rapporto con Sally Tomato.
Nel film Paul Varjack è innamorato di Holly e, soltanto nel finale, anche Holly ammette apertamente di amarlo. Dunque c’è un lieto fine romanticissimo, con tanto di bacio sotto la pioggia e gatto.
Avete presente la scena meravigliosa, no?
Ecco, nel libro non c’è neanche lontanamente traccia di tutto questo. Non soltanto Holly, dopo essersi pentita di aver abbandonato il gatto, non lo ritrova ma decide di partire comunque per il Brasile da sola. Prima però fa promettere a Paul di ritrovare il suo gatto e prendersene cura.
Paul non rivedrà più Holly e, dopo mesi e mesi passati a cercare, un giorno vede il bel micione sulla finestra di un appartamento, ormai adottato da una famiglia felice. Paul spera in cuor suo che anche Holly abbia trovato un posto da chiamare casa, ovunque fosse nel mondo.
Insomma, le storie seguono sviluppi ed intrecci molto diversi l’uno dall’altro.
Sicuramente nel libro viene sottolineata molto di più la natura selvatica e complessa di Holly: la ragazza, senza dubbio per via della sua difficile infanzia e di un matrimonio troppo precoce, è molto cinica e caparbia, incline ad una visione della vita e dei rapporti umani disincantata ma allo stesso tempo poetica.
Consapevole del fascino che esercita sugli uomini, non esita a servirsene per ottenere ciò che vuole, pur essendo totalmente inconsapevole di quello che desidera. O meglio, pur sapendo che nessun uomo, o persona in generale, le possa dare l’unica cosa di cui sente di avere bisogno: il senso di appartenenza ad un posto.
“Non voglio possedere niente finché non avrò trovato un posto dove io e le cose faremo un tutto unico. Non so ancora precisamente dove sarà. Ma so com’è.” Sorrise e lasciò cadere il gatto sul pavimento. “È come Tiffany,” disse. “Non che me ne freghi niente dei gioielli. I brillanti, sì. Ma è cafone portare i brillanti prima dei quaranta, ed è anche pericoloso. Stanno bene solo addosso alle vecchie, i brillanti. Ma non è per questo che vado pazza per Tiffany. Sapete quei giorni, quando vi prendono le paturnie?”
“Cioè, la melanconia?”
“No,” disse, lentamente. “La melanconia viene perché si diventa grassi, o perché piove da troppo tempo. Si è tristi, ecco tutto. Ma le paturnie sono orribili. Si ha paura, si suda maledettamente, ma non si sa di che cosa si ha paura. Si sa che sta per capitarci qualcosa di brutto, ma non si sa che cosa. […] Mi sono accorta che per sentimi meglio mi basta prendere un taxi e farmi portare da Tiffany. È una cosa che mi calma subito, quel silenzio e quell’aria superba: non ci può capitare niente di brutto là dentro, non con quei cortesi signori vestiti così bene, con quel simpatico odore d’argento e di portafogli di coccodrillo. Se riuscissi a trovare un posto vero e concreto dove abitare che mi desse le medesime sensazioni di Tiffany, allora comprerei un po’ di mobili e darei un nome al gatto.”
Ecco perché viene sottolineato il rapporto di Holly con il suo gatto. La protagonista sicuramente si vede molto come un animale dall’animo selvatico che gli altri non vedono l’ora di addomesticare o mettere in gabbia, come lei stessa nel romanzo lascia intuire passando davanti allo zoo e quando regala a Paul un’uccelliera che avevano visto assieme, chiedendogli però di non metterci mai dentro una creatura viva.
Holly dichiarò che non poteva sopportare di vedere un animale in gabbia.
[…]
“Ma Holly! È terribile!”
“Sono perfettamente d’accordo; ma pensavo che tu la desiderassi.”
“Il prezzo! Trecentocinquanta dollari.”
Si strinse nelle spalle. “Qualche passeggiatina extra alla toeletta. Ma mi devi promettere una cosa. Promettimi che non ci metterai mai dentro una creatura viva.”
Holly è una creatura selvatica che non può, non sa e non vuole appartenere a nessuno e nel libro resta coerente con la sua paura fino alla fine. Non tradisce la sua natura e fa quello che meglio le riesce: vola via.
Nel film invece, alla fine, sceglie di rinunciare all’idea di amore come di una prigionia. Sceglie di abbandonare la convinzione che per amare e lasciarsi amare da qualcuno sia necessario rinunciare alla propria libertà, probabilmente perché il sentimento di Paul e per Paul riesce a smuoverla.
È difficile dire quale dei due finali sia migliore. Una parte di me ha pensato e pensa tuttora che il primo sia più veritiero e decisamente realistico – Capote era pur sempre un giornalista! – forse troppo per un film con un’attrice come Audrey Hepburn, sempre protagonista di film che, ognuno a modo suo, richiamavano le fiabe con i loro happy ending.
In fin dei conti, proprio perché così diversi, questi due finali possono rappresentare benissimo l’uno il rovescio dell’altro ma sono anche complementari. Come Paul dice a Holly, durante l’ultima scena, mentre scende dal taxi: “Sai che ti dico? Che la gabbia te la sei già costruita con le tue mani. Ed è una gabbia dalla quale non uscirai in qualunque parte del mondo tu cerchi di fuggire. Perché non importa dove tu corra, finirai sempre per imbatterti in te stessa.”
Holly vuole essere libera. E in entrambi i casi ci riesce. Sta a noi scegliere quale dei due modi sembra più giusto. O anche solo quale ci piace di più.
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