Viaggio nel supermarket delle parole non dette

I buoni propositi sono per gli ottimisti, quelli che in un modo o nell’altro riescono a credere davvero  che basta poco per cambiare il corso degli eventi e la propria indole.
Io non appartengo a questa categoria, purtroppo o per fortuna. Sono piuttosto convinta che ogni singolo cambiamento, specie su se stessi, richieda una mole di lavoro non indifferente, una dose massiccia di sbagli, sudore e pazienza. Ecco perché mi sto applicando non poco e da parecchio per cercare di essere una versione migliore di me stessa.
Comincio dalle piccole cose. Cerco di non pensare troppo, tento di seguire l’istinto – cosa non facile per una cerebrale di prima categoria– e mi impongo di essere zen.
Il che, nel mio caso, significa imparare a lasciar correre. Non esplodere come un vulcano ogni volta che qualcosa non va come vorrei o come penso dovrebbe. Ma anche ogni volta che qualcuno si comporta in modo a dir poco discutibile nei confronti della mia persona. Cercando di ferirmi, di prendermi in giro. Anche entrambe le cose insieme magari.
Questo è davvero difficile, soprattutto se per anni e anni sei stata abituata ad urlare, a mandare felicemente a fare in culo chiunque osasse oltrepassare dei severi limiti di sopportazione. Però sto migliorando, poco a poco.
Sono ancora lontana dal livello Dalai Lama, questo è certo, ma devo riconoscere di non essere più allo stadio punkabbestia incazzoso. Fondamentalmente quello che cerco di fare è evitare di parlare senza riflettere, senza assicurarmi prima di essere lucida e calma.
Perché le parole sono importanti e a volte fanno più male di un ceffone mollato a dovere in piena faccia. Sì, è così. E non lo dico solo perché io sono una feticista delle parole. Credo sia innegabile per chiunque ed universalmente valido.
Le parole possono essere affilate come coltelli e allo stesso tempo più avvolgenti di un abbraccio. Per questo sarebbe preferibile pesarle, ragionarci su, prima di lasciarle andare.
Con le parole facciamo praticamente di tutto.
Creiamo storie. Distruggiamo aspettative. Apriamo porte. Ne chiudiamo di altre o le socchiudiamo soltanto. Ci raccontiamo agli altri, magari inventandoci un po’. Facciamo male.
Poi c’è una categoria a parte di parole. Quella sulla quale mi concentro un po’ di più da quando ho iniziato ad applicarmi nel provare ad essere migliore.
Le parole non dette. Le parole taciute.
Non so perché ma non riesco ad essere immune al loro fascino, probabilmente perché ho una predilezione per tutto ciò che resta in sospeso, tipo i finali aperti. 
Mi sono sempre chiesta dove finissero tutte quelle parole che pensiamo, magari scriviamo anche su qualche foglio stropicciato, senza però spedirle al loro destinatario. Perché è così, si sa: tutto ciò che si scrive o si dice ad alta voce sottende un destinatario – non a caso Umberto Eco diceva:C’è una sola cosa che si scrive solo per se stesso, ed è la lista della spesa”
Potrei mettere su un libro intero con tutte le lettere che ho scritto negli anni e poi non ho mai consegnato ai legittimi destinatari, le persone per le quali mi mettevo lì a buttare inchiostro – e parti di me – sul fondo di pagine e pagine. Ma allora dov’è che vanno? Dov’è che finiscono tutte queste matasse di parole in fila?
Secondo me dovrebbero esserci dei supermarket con tutte le parole non dette.
Me le immagino lì, in bei barattoli etichettati o inscatolate, sistemate con cura sugli scaffali bianchi di una sorta di piccolo emporio aperto 24 ore su 24 e con le casse automatiche, per la privacy del cliente.
Per i “grazie” farei sempre un bel paghi 1 prendi 3, perché ci si dimentica sempre troppo spesso di ringraziare chi di dovere. Le scuse le lascerei perennemente in super offerta, così magari la gente le comprerebbe con costanza e chissà, forse troverebbe il coraggio di usarle con altrettanta frequenza.
Sarebbe sempre strapieno il reparto dei “ti amo”, per non parlare di quello dei “non ti amo più” che io regalerei come omaggio, visto che c’è ancora chi non riesce ad afferrare quanto sia indispensabile a volte sentirselo dire. Meno frequentata, ma non per questo meno fornita o importante, l’area del “ti perdono”, dove io dovrei perdere parecchio tempo, sempre per la faccenda dell’essere zen.
E poi una manciata di “sto male” che si sposano benissimo con i “perché?” di cui ho sempre la mente affollata.
La verità è che le parole non dette fanno più danni di quelle che vengono lanciate come bombe, come ordigni pericolosi in grado di lasciare crateri nel terreno.
Perché appunto restano lì, dentro di noi, ristagnano e ci avvelenano.
Se invece le lasciassimo andare, specie quelle importanti, quelle sentite e sincere, per quanto difficili da pronunciare, potrebbero salvare entrambe le parti.
In modo diverso, certo, ma ugualmente essenziale.
Pensiamo sempre di tutelare gli altri o noi stessi non dicendo determinate cose, quando poi accade l’esatto opposto. Finiamo con il torturarci, chiedendoci cosa sarebbe successo se avessimo avuto il coraggio semplice e istintivo di non ricacciare dentro le parole che ci danzavano sulla punta della lingua e che poi diventano palline, anzi gocce, gocce cinesi con cui ci corrodiamo il cervello.
Se esistesse davvero un supermarket per le parole non dette sarebbe bello poter regalare dei buoni. Del tipo “La signorina Giulia le regala un buono spesa valido per due ti perdono e un mi manchi“e tanti cari saluti.
Ma forse così sarebbe tutto più semplice, troppo semplice. In fondo imparare a vivere e a gestire i rapporti significa anche riuscire a vincere il nodo alla gola, quella fastidiosa sensazione che rende così difficile dire tante tante cose.
E’ stato bello conoscerti.
Sto male.
Vorrei piangere.
Abbracciami.
Resta.
Mi fido.
Usciresti con me?
Hai ragione.
Non ti credo.
Ho paura.
Ti voglio bene.
Perdonami.
Non è vero che ti odio.
Sono proprio una stronza.
Ce la faccio.
Ho sbagliato.
Comunque grazie.

 

 

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