Non mi è mai importato niente del mio aspetto, in particolare non mi è mai importato niente dei numeri che vedevo sulla bilancia le rare volte in cui mi pesavo.
I primi anni del liceo non avevo alcuna percezione del mio corpo, ero sempre stata abituata a concentrarmi su ciò che contava e conta tuttora di più: la mente. Studiavo, studiavo tantissimo, ma soprattutto leggevo, cosa che ho sempre fatto e continuo a fare perché è soprattutto nelle pagine dei libri che ho trovato parti essenziali di me.
Poi qualcosa è cambiato, qualcosa si è rotto e l’equilibrio delicato che teneva insieme l’indifferenza verso il mio aspetto e la sua percezione è andato in frantumi.
Non ricordo il momento esatto, non ricordo il motivo scatenante, ma d’improvviso guardarmi allo specchio mi faceva male. Le gambe lunghe e sottili delle mie amiche mi facevano male, i pantaloncini che mi fasciavano le cosce mi facevano male.
Ho iniziato a sentirmi come un’invitata vestita di stracci a una festa elegante.
Il mio corpo mi andava stretto, mi sembrava un brutto soprabito del quale non riuscivo a liberarmi
Ma io non sono il tipo di persona che si crogiola nel dolore, il mio mantra è sempre stato “se qualcosa non ti fa stare bene, allora cambiala“. Ecco. Io cambio, o almeno ci provo, tutto quello che non mi piace. E così ho fatto.
Solo che cambiamenti simili non possono essere privi di conseguenze. Il cibo mi è iniziato ad apparire come un nemico – il che è paradossale per una persona che ama fare dolci, no?– un nemico da combattere a suon di attività brucia calorie. Avevo un’odiosa app sul telefono dove scrivendo tutto ciò che avevo mangiato durante il giorno potevo calcolare le calorie ingerite. Ero bravissima a non superare mai le 700 kcal giornaliere, a fare ginnastica almeno un’oretta, anche soltanto un po’ di cyclette.
E dimagrivo, porca miseria se dimagrivo!
In un anno ho perso circa dieci chili. Ero fidanzata con un ragazzo che quando ci eravamo messi insieme chiamava affettuosamente le mie cosce “prosciutti” e che poi nel momento in cui iniziavano a vedersi le ossa delle costole mi diceva che non avevo più forme ed ero meno attraente.
Quindi, mi chiedevo in quei momenti, ma perché quand’ero grassa non andavo bene a me stessa e da troppo magra non vado bene agli altri? A spaventarmi – prima e molte volte tuttora– è la differente percezione che abbiamo del mio corpo io e chi mi circonda.
C’è chi mi dice che sto bene, c’è chi mi rimprovera e mi invita a mettere su qualche chilo. E poi ci sono io che molto spesso mi guardo le cosce e le vedo ancora enormi, come quelle della Giulia con dieci chili in più, e la cosa mi fa stare male, stupidamente.
Questo significa con ogni probabilità che pur essendo da sempre convinta della superiorità della mente e dello spirito sull’aspetto e sull’estetica, la società è riuscita a condizionarmi eccome. Non sono state di certo le modelle sulle pagine delle riviste di cui ho una mensola piena, tantomeno le signorine mezze nude in televisione.
No, credo che ad aver fatto breccia nel mio cervello, sia stata la spietata intolleranza nei confronti del fallimento.
Un astio che ho riversato praticamente in ogni aspetto della mia vita, incluso il controllo del peso, della fame, del cibo. E cerco di essere sempre impeccabile in quello che faccio, nelle azioni che decido di intraprendere e che porto sempre fino in fondo. Ma perché poi? Perché nonostante tutti i libri letti, nonostante la mia voglia costante di essere chi voglio essere, inevitabilmente ho permesso alla società di influenzare l’immagine della persona che desidero diventare. La forma più evoluta e subdola di schiavitù dei nostri giorni credo sia questa.
Ci pieghiamo senza nemmeno accorgercene, senza nemmeno sapere come, a dettami che la maggior parte delle volte ci sfuggono addirittura. Ma ci pieghiamo, siamo lì che ci impegniamo così tanto per essere una versione omologata di noi. Per essere chi gli altri si aspettano noi siamo e stare bene in mezzo a loro.
Così crediamo di essere finalmente arrivati, di aver raggiunto una meta, ma la verità è che la sensazione di essere in pace con noi stessi non l’avremo mai, almeno finché non riusciremo ad essere veramente noi a decidere chi vogliamo e dobbiamo essere.
In questi giorni ho letto nel post di un blog una frase che continua a ronzarmi in testa: “Le persone vi vogliono nella versione di voi che meno li spaventa, io vi voglio nella migliore“. A pensarci bene mi rendo conto che io stessa ho sempre creduto di volermi al meglio ma poi di fatto tutte le mie scelte mi hanno portata ad essere la versione di me meno spaventosa. Quella che qualche volta si chiede ancora “ma cosa penserebbero gli altri?” dimenticando di chiedermi in primis cos’è che ne penso io. Nel corso dell’ultimo anno ho cercato di lavorare moltissimo in questo senso, arrivando alla conclusione che la vera libertà è scegliere di fare soltanto ciò che si desidera davvero fare. Sembra facilissimo, invece è soprattutto spaventoso: la libertà è un’arma a doppio taglio che puntualmente ci mette davanti ai nostri desideri ma soprattutto alla paura di sbagliare e di essere giudicati. Ma a venticinque anni non credo esista qualcosa di più importante dell’essere liberi, anzi forse in realtà non dovrebbe esistere mai. Quindi so bene che ho ancora parecchia strada da fare per essere quella versione migliore di me, appropriandomi di una libertà vissuta ancora soltanto parzialmente.
Coltiverò l’arte dell’accettazione, mi dirò ogni giorno della mia vita che fallire o allentare la presa ogni tanto va bene, scoprirò come saper amare e accettare un corpo verso il quale ho ancora delle riserve. Mi sforzerò per capire che non si può controllare tutto, tantomeno gli aspetti della vita che si nutrono di casualità e probabilmente tempismo, e smetterò di controllare in modo malsano tutto quello che mangio soltanto per caparbietà come a voler dire – ma a chi poi? – “vedi che se voglio riesco ad avere il controllo di un gerarca nazista?“.
Strapparsi di dosso queste cattive abitudini richiede una forza d’animo che temo di non avere, d’altra parte però ciò che mi manca in coraggio l’ho sempre compensato benissimo in caparbietà.
Tutto sta nell’audacia di incominciare, magari strappando via dalla propria testa tutte quelle stronzate che ci raccontiamo per giustificare una condotta mediocre e atteggiamenti penosi dei quali noi per primi non andiamo proprio fieri. Perdiamo così tanto tempo a trovare scuse che supportino scempiaggini comportamentali, a inventare attenuanti per motivarle. C’impegniamo così tanto a raccontarci questo mucchio di storie per proteggerci, per far sì che poi la realtà si adatti ad esse – e non viceversa – mossi dal desiderio di farle combaciare. La verità è che poi queste storie finiscono con l’imprigionarci. Ci intrappolano e ci allontanano dalle cose davvero importanti ma soprattutto da noi, dalla migliore versione di noi stessi.
Un pensiero su “La migliore versione di sé”