Quarant’anni senza Pier Paolo Pasolini

Oggi è il 2 novembre 2015 e da qualche giorno ormai aleggiano un po’ ovunque il nome e la memoria di Pier Paolo Pasolini, che non proprio tutti conosciamo al meglio delle nostre possibilità.
Non è un caso ovviamente, perché come ci stanno ricordando giornali e trasmissioni televisive, il 2 novembre 1975 il cadavere di Pasolini veniva ritrovato all’Idroscalo di Ostia. Il presunto aguzzino sarebbe un certo Pino Pelosi, un ragazzino di diciassette anni.
A quarant’anni da quel giorno ancora non si sa effettivamente chi sia il vero artefice di un delitto rimasto apparentemente avvolto dal mistero. C’è chi ha continuato e continua a lottare affinché la verità possa emergere, affinché l’assassino – ma forse sarebbe più corretto dire gli assassini – di Pier Paolo Pasolini possa avere finalmente un volto.
E tutto questo è sacrosanto.
Ma davvero non sappiamo chi ha ucciso Pasolini? Io credo di sì. Non si conoscono le fattezze fisiche, i nomi e i cognomi di costoro, ma non è difficile immaginare il motivo effettivo per cui Pasolini doveva sparire.
Pasolini sapeva, era lui stesso a dirlo. Sapeva nomi, cose e fatti che un intellettuale estraneo alle pratiche del Potere non dovrebbe sapere, o meglio sarebbe preferibile non sappia.
“Io so. Ma non ho le prove. Non ho nemmeno indizi.”

Pasolini non è morto soltanto quel 2 novembre di quarant’anni fa. Ha continuato a morire nei mesi e negli anni a seguire, quando veniva dipinto come un depravato, un invertito, una belva del sesso rapace e spietata, un sadico, immagine che trovava erroneamente conferma nell’ultimo film che ci ha lasciato.
Ha continuato a morire quando, dopo aver finalmente riconosciuto che effettivamente sulla scena del delitto erano presenti altri cinque DNA oltre a quello del poeta stesso e di Pelosi, il caso è stato chiuso. Oggi forse qualcosa può cambiare. Oggi, mentre ci troviamo praticamente a vivere in quello scenario apocalittico dominato dall’incubo consumista che Pier Paolo Pasolini dipingeva quarant’anni fa, senza essere compreso dai più, potremmo effettivamente rendergli in parte giustizia.
Questo è il momento in cui Pasolini potrebbe essere davvero capito, colto molto meglio rispetto alla sua contemporaneità, proprio perché nasciamo e viviamo dentro le sue parole senza neanche saperlo.
Forse, dal punto di vista più pratico, ciò non farebbe differenza alcuna. Ma almeno avremmo più consapevolezza. La consapevolezza di chi siamo davvero e chi invece la società vorrebbe noi fossimo, la consapevolezza di essere degli ingranaggi in una macchina solo apparentemente perfetta, la consapevolezza di adoperarci così tanto per apparire diversi ed essere tutti diversi in modo uguale e banale.
Oggi Pasolini potrebbe tornare a vivere, può tornare a vivere e far sentire quella sua voce scomoda più di prima, ma non senza l’impegno ed il sacrificio di chi ha ancora la possibilità di agire concretamente. E per impegno e sacrificio non alludo di certo a rivolte o lotte armate.
Penso più alla libertà intellettuale che, per l’appunto, deriva dalla consapevolezza.

Alberto Moravia quarant’anni fa diceva: “Abbiamo perso prima di tutto un poeta. E poeti non ce ne sono tanti nel mondo, ne nascono tre o quattro soltanto in un secolo. Quando sarà finito questo secolo, Pasolini sarà tra i pochissimi che conteranno come poeta. Il poeta dovrebbe essere sacro.”
Ed ha avuto ragione. Si cerca costantemente di cancellare il vuoto che Pasolini ha lasciato, ma la verità è che più ci si prova più il peso di questo vuoto riecheggia e grava sulla realtà odierna.
Ad oggi non esiste e, con ogni probabilità, non esisterà mai un altro Pier Paolo Pasolini.
Eppure ne avremmo un bisogno quasi disperato.
Per ritrovare la forza di osservare la società in tutte le sue sfumature, per avere il buon senso ed il coraggio di ambire al cambiamento attraverso l’arte e la cultura.
Per ritrovare un po’ di libertà intellettuale.
Per avere finalmente un po’ di consapevolezza.

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