Se c’è una cosa che ho capito negli ultimi mesi di vita, nei primi mesi di questo 2015, che mi ricorda sempre più uno di quei ragazzini ai quali i professori non fanno altro che dire “hai il potenziale ma non ti applichi abbastanza”, è questa: basta veramente poco.
Per fare che?
Fondamentalmente per qualsiasi cosa. Per stravolgere radicalmente aspetti della vita che erano fermi, in stallo da anni ormai. Che sia una relazione, una scelta di lavoro o di studio, un viaggio.
Basta una parola non detta o anche una parola di troppo, basta un po’ più di passione in quello che si fa, basta un po’ più di elasticità mentale.
Ecco perché mi sto ritrovando, più di quanto già non facessi, a rimuginare sulle cose fatte ma soprattutto su quelle che vorrei fare. Non riesco a fare qualcosa così, lanciandomi, senza pensarci troppo, nonostante lo vorrei molto. Perché dicono “se non lo fai a vent’anni”. Se non lo fai a vent’anni? Non è questione di numeri, di età. Tutta roba di indole. Se hai un cervello che non ti molla un attimo, se ti arrovelli su qualsiasi cosa, anche la più banale, se proprio non riesci a lanciarti pure con un paracadute e una pila di materassi soffici sotto i tuoi piedi, se il pensiero della caduta ti terrorizza a tal punto da farti perdere di vista il motivo per cui ti lanceresti, probabilmente l’età non c’entra un bel niente.
Sì, ecco, io riesco solo a domandarmi: ma perché mi devo buttare nel vuoto?
In fin dei conti io così sto bene, al sicuro, con il culo comodo e le ginocchia al riparo da possibili sbucciature. Ho avuto anche io la mia occasione di lanciarmi. L’ho fatto e per un po’ ho avuto il materasso ad attutire l’impatto, ma poi? Poi succede che, per una strana legge universale, devi per forza finirci per terra.
A farti male, a rotolarti nei cocci delle cose fatte e dette. Perché basta poco, appunto, basta poco dallo stare spaparanzata comodamente su un vecchio materasso al ritrovarsi con un pugno di detriti e macerie intorno. Probabilmente il mondo si divide in due categorie di persone, quelle che preferiscono rialzarsi subito, scrollarsi tutto di dosso e ripartire, passo dopo passo. E poi ci sono quelle che restano un attimo lì, sedute, a contemplare i resti di qualcosa che sì, è esistito davvero, c’era, perché lo hai visto nascere e crescere. Solo che poi basta distrarsi un attimo, basta un battito di ciglia più lungo del solito, ed ecco che tutto s’è distrutto. Una città fantasma. Non resta niente, solo tanti tanti tanti calcinacci. Di momenti, di promesse, di sguardi che avevano dentro un cosmo intero.
Io non lo so, forse faccio parte di una categoria a parte. Perché quelle poche volte che mi sono concessa di cadere, di farmi male sul serio, mi sono alzata subito. Non ho tempo da sprecare, io che procedo con un unico imperativo morale lampeggiante nel cervello: “andare avanti soffrendo il minimo indispensabile”.
Però poi ho i miei momenti. Quei momenti in cui non riesco più a sentire il pavimento sotto i piedi. Come se fossi d’improvviso sottosopra, nel vuoto.
Ed eccomi di nuovo lì, in quel cumulo di macerie fumanti, il campo di battaglia dove ho combattuto la mia guerra personale, completamente da sola. Quindi mi siedo e riguardo tutto. Ripercorro tutto nella mia testa e vorrei piangere, ma non ci riesco nemmeno più. Vorrei tirare fuori da me quegli ultimi detriti, quelli che probabilmente avevo messo nelle tasche prima di alzarmi subito dopo la caduta, pensando che sarei stata in grado di sopportare il loro peso. Ma no. Non si può. Non bisogna avere compassione per le cose che non sono state in grado di restare in piedi.
È bastato troppo poco per far crollare tutto. Potevo capire se fosse passato di lì un uragano. Ma si è trattato solo di crepe apertesi nel muro, crepe che abbiamo cercato di nascondere con una o due passate, crepe che poi hanno letteralmente corroso le fondamenta di tutto.
Però ancora ci torno a guardare. Non so perché, se per capire, se per farmi solo del male o se per paura di andare davvero avanti. Forse c’è un fondo di verità in tutte e tre le cose. Ho sempre questo bisogno insensato di fare l’autopsia a qualsiasi cosa mi passi davanti, solo così mi sembra di poterla davvero capire. E a volte ho anche il bisogno di mettermi di fronte al dolore, per abituarmi, per ricordarmi che sono umana e che, in quanto tale, devo imparare ad affrontarlo davvero senza aggirarlo. Andare avanti. Quello sì che mi fa paura. Per quanto a parole sembri inevitabile, l’andamento naturale del corso di un fiume, per quanto possa essere stimolante, è soprattutto terrificante.
Non so davvero cosa possa esserci oltre quella landa desolata, rasa al suolo dalla cecità e da troppe mancanze. Non riesco ad immaginare un locus amoenus, non riesco ad immaginare nessun posto dove io possa stare, dove io non stoni. Eppure non voglio credere che il mio posto siano le macerie.
Voglio pensare che da qualche altra parte ci sia quel luogo adatto, quell’isola felice nella quale finalmente lanciarsi, senza temere troppo l’impatto al suolo. Quel posto nel quale poter costruire sì, ma tenendo conto degli sbagli commessi prima, tenendo sempre bene a mente che basta poco per trasformare tutto in roba da buttare. E io voglio smetterla di concentrarmi ancora e ancora sulla roba che ormai è da buttare.

Un pensiero su “Di paracaduti, materassi ed eventuali isole felici”